Sentirsi parte (appartenenza) e sentirsi capaci (utilità): la così detta «cittadinanza attiva» nasce da questi due presupposti, che non sempre si muovono di pari passo e contengono entrambi il rischio di una deriva.
Dall’attenzione al senso di utilità spesso nascono iniziative pregevoli, ma scollegate e auto-referenziali. Mi vengono in mente ad esempio le vagonate di raccolte alimentari a cui assistiamo quando si presenta un’emergenza sanitaria, senza a volte purtroppo incontrare e rispondere a un bisogno reale.
Dall’altra parte, quando l’accento viene posto sul senso di appartenenza nascono iniziative in cui tutti esprimono il proprio punto di vista, senza preoccupazione che si arrivi ad una sintesi efficace, più preoccupati di dire la propria che di trovare cosa dire insieme. In questo caso l’esempio potrebbe cadere sui tavoli di lavoro infiniti che ingoiano risorse ed energie.
Per evitare questi due estremi la cittadinanza attiva, per potersi realmente esprimersi, ha bisogno di una forma. A chi spetta questo compito? Come può chi ha responsabilità sociale favorire questi processi?
Queste sono le domande a cui occorre trovare una risposta.
Una delle sfide educative che ci poniamo quando lavoriamo con i ragazzi è far emergere l’importanza di affrontare i problemi e le difficoltà, cercando soluzioni condivise. Potremmo dire che collaborare è sia un talento, una dote sia una competenza da apprendere. Quindi il punto è interrogarsi non su quanto facciamo per la comunità, bensì su quanta attenzione dedichiamo alla cura del saper collaborare.
Paolo Maria Ferrari
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